I pilastri del riformismo

di Domenico Delle Foglie

C’è un virus che si annida maligno nelle viscere del sistema politico italiano. Ha contaminato la cultura italiana svuotandola progressivamente di senso civico, che ha ammorbato sino allo sfinimento l’opinione pubblica, assumendo nel tempo forme e modi diversi.

Chiamatelo oltranzismo, estremismo, massimalismo, giustizialismo o benaltrismo, il risultato è sempre stato uguale a se stesso: la sconfitta del riformismo.

Non v’è dubbio che, superata la prima stagione irripetibile del riformismo sociale e istituzionale a trazione democristiana, il riformismo italiano abbia inanellato una lunga stagione di sconfitte più o meno meritate, più o meno motivate, più o meno necessitate. Anche le leadership riformiste hanno subito lo stesso destino, spesso accomunate dall’oblio a cui sono destinati gli sconfitti. Dalle urne, ma ancor più dagli scandali veri o presunti. Giusto per fare memoria breve, si sono dichiarati riformisti Bettino Craxi, Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Mario Monti e Matteo Renzi. Più sinistra che destra, ma questa è la galleria riformista del Paese.

Craxi è stato sepolto vivo da Mani Pulite. Amato, Ciampi e Monti hanno avuto piuttosto il profilo dei “grand commis” o degli uomini delle istituzioni e in questa veste hanno servito la causa riformista, senza riuscire a incidere sul Paese al quale hanno dato un contributo soprattutto sul piano del rigore finanziario, pure necessario in un’Italia vittima della propria dissipazione economico-finanziaria.

Berlusconi e Prodi sappiamo come sono andati a finire.

Infine c’è Matteo Renzi, l’ultimo a tentare la scalata più ardua: rilanciare il Paese con le ricette del riformismo.

Si può non essere d’accordo su nulla con il giovane leader fiorentino, ma non si può disconoscere che la sua sia una ricetta riformista.

Una proposta che nella lotta politica può anche comprendere la discutibile prassi della “rottamazione” come espediente retorico-programmatico al fine di liberarsi di avversari interni più o meno scomodi, ma dipingerlo come un tiranno è inverosimile. Magari possono non piacere certi suoi vezzi presi in prestito agli avversari (Berlusconi innanzitutto), ma è indiscutibile che la sua prassi politica sia riformista.

La sua ricerca del “nuovo” a tutti i costi può anche suonare stonato in un Paese conservatore, corporativo e bloccato qual è l’Italia, ma ancora non vediamo nascere altre forme di riformismo. Cioè una nuova idea di Stato, di partito, di società, di cultura e di relazione sociale.

Quando il presidente del consiglio per spiegare la manovra economica ha evocato “il merito e il bisogno”, abbiamo fatto un salto all’indietro, al Claudio Martelli del 1982.

Un’era geologica per la vita politica. A quel tempo Renzi aveva solo sette anni. Oggi lui scopre “il merito e il bisogno”? Vorremmo prenderlo molto sul serio. Perché le donne gli uomini e i giovani di questo Paese attendono disperatamente che vengano riconosciuti i loro meriti e vengano soddisfatti i loro bisogni.

Quindi c’è solo da augurarsi che qualcuno possa farcela davvero. Che si chiami Matteo Renzi o Pinco pallino, non importa. Il Paese ha un bisogno disperato di nuovi riformisti, anche in campi politici diversi dal suo. Ma sempre e solo riformisti.

Di populisti, massimalisti, neo nazionalisti, settari e giustizialisti via internet e rivoluzionari (da salotto e non solo) un Paese democratico come il nostro potrebbe e dovrebbe cominciare a farne a meno. Tutti loro fanno parte dell’anomalia italiana. Cioè di una democrazia occidentale che ha paura delle riforme.

Corriere Cesenate 38-2016

Pubblicato mercoledì 19 Ottobre 2016 alle 18:30

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