Aneddoti e tradizioni romagnole: la vendemmia

Anche quest’anno, nonostante la siccità, ha avuto inizio la vendemmia, uno dei momenti più gioiosi nei ricordi di molti di voi.

Una volta, se la stagione andava bene, si era in pieno raccolto solo alla metà del mese d’ottobre. Durante la vendemmia una leggera nebbiolina stemperava i contorni e la campagna si riempiva di suoni, di richiami e anche di provocatorie canzonette.

Il mosto veniva portato nel tino con i bigonci, qui doveva fermentare, bollire come dicevano “fal bulì cl’elza e capell /fallo bollire che alzi il cappello”. Tutto prendeva inizio già alla fine d’agosto, verso il ventiquattro, “par san Bertlazz us’ bagna e tinazz / per San Bartolomeo si bagna il tino”. Il contadino riempiva il tino di acqua, per renderlo impermeabile, metteva in ordine la cantina e controllava i recipienti uno a uno.

A fermentazione conclusa il vino veniva travasato nelle botti, già accuratamente predisposte. Chi voleva fare un po’ di vino buono sceglieva i grappoli più belli che faceva appassire al sole allo scopo di ottenere più gradi zuccherini.

Alcuni aggiungevano al mosto farina gialla e la “saba”, una specie di marmellata così da ottenere dei dolcetti sfiziosi i “sugal”. Con la “saba” si sarebbero preparati anche altri dolci, fra cui “e sabado”, proprio una lovaria.

Nelle botti, il vino non ancora fermo era rabboccato in attesa del giorno benedetto di San Martino, per essere pressato a dovere e segnato da una croce propiziatoria. La fiducia nel Santo era tale che molti recuperavano il vino bevuto per la svinatura di San Martino con acqua del pozzo, fiduciosi del proverbio: “Infina San Marten l’aqua la dventa ven, da San Marten in là chi ha mess l’qua u s’la bivrà / Fino a San Martino l’acqua diventa vino, da San Martino in poi chi mette l’acqua se la berrà”.

Ma andiamo per gradi. Prima di entrare nel vivo dell’enologia tradizionale è bene che vi indichi qualche frase da dire mentre si assaggia il vino nuovo. Il galateo prevedeva che l’assaggiatore, mentre riconsegnava il bicchiere vuoto, dicesse: “L’ha già l’imbocatura bona” (è già abboccato) e si rispondeva: “Sé l’è vera, l’ha una bona chena” (è alcolico), “e u va zò com un rusoli” (pare rosolio). Quando la cantina diventava familiare si proseguiva: “J en e i bicir in’ s’ha da cunteè / Gli anni e i bicchieri non si devono contare”, “E quest u fa risuscitè i murt / questo fa resuscitare i morti”.

Le vinacce, allora non torchiate, venivano visitate dall’acqua e si otteneva in due o tre giorni il mezzovino, che veniva conservato in botti e barili in quanto considerato un buon prodotto. Ottenuto il mezzovino, si continuava ad aggiungere acqua sulle vinacce per ottenere l’acquerello che si beveva a volontà.

In sintesi, dall’uva si otteneva in progressione: vino, due tipi di mezzovino, e quattro di acquerello. Come potete immaginare la probabilità di bere un buon bicchiere di vino era veramente remota, se non remotissima.

Abbiamo visto fin qui cosa beveva il popolo, ora vediamo cosa bevevano i sacerdoti sull’altare. Le uve rosse migliori, appassite nei graticci su paglia e ginestre, vinificate la vigilia di Natale, venivano poste in barili e lasciate a fermentare lentamente sino al Sabato Santo, giorno in cui si effettuava il primo travaso per ripulirle dai fondi.

Tale operazione si ripeteva con religiosità, alla vigilia di Natale, e ancora in quella di Pasqua per almeno tre anni. Finalmente quel vino rosato, chiamato vinsanto, veniva imbottigliato e quindi, per 10-15 anni, messo in grotte a riposare. Questo che vi ho appena descritto era il metodo veloce, in quanto alcuni parroci preferivano, prima di arrivare alla fase dell’imbottigliamento, proseguire i travasi iniziali per almeno 10 anni. Il vino così ottenuto prendeva la denominazione di “santissimo”.

D’ora in poi prima di bere un bicchiere di vino avremo modo di soffermarci sulla cultura antropologica che ci sta dietro. A giovedì prossimo.

Diego Angeloni

Pubblicato giovedì 21 Settembre 2017 alle 00:01

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