Un sabato pomeriggio diverso e speciale

Si fa presto a dire che sei vecchio del mestiere, che parlare in pubblico non ti fa paura! Hai iniziato che eri poco più che un ragazzo. Non hai avuto paura degli scontri politici, non ti è mancata la parola nelle assemblee inferocite dei commercianti. Hai viaggiato il mondo, conosciuto uomini, a volte anche potenti che non hanno scalfito la tua freddezza. Si fa presto a dirlo!

Ma ora sei lì, in un’antica fortezza, dentro un carcere, in una sala adibita a biblioteca, circondato da una cinquantina di ragazzi, privati della libertà, ma batte il cuore per l’emozione.

Hai superato cancelli di ferro che si sono richiusi alle tue spalle, inferriate che separano un reparto dall’altro, dove solo il cigolio delle chiavi rompeva il silenzio sinistro dei lunghi corridoi, hai visto muri con vistose macchie di umidità e ferri arrugginiti, e ora sei giunto in questa ampia sala dove ti aspettavi di trovare pochi reclusi volenterosi che vengono ad ascoltarti. E invece, la stanza è piena. Mi avevano avvisato che forse sarebbero stati presenti al massimo una quindicina di persone, invece sono quasi cinquanta. E per la prima volta ci sono anche le recluse.

Ho sempre avuto attenzione e curiosità per l’universo carcerario, ma non lo avevo mai visitato, non avevo mai incontrato reclusi, mai visti da vicino, non sapevo come parlano e come ridono, se ridono. Soprattutto ho cercato i loro occhi, per scoprire un’emozione, una verità, un pensiero, una situazione di vita.

Questa esperienza era nata nel tardo autunno dell’anno passato, quando l’amico Giancarlo Daltri, che fa parte del gruppo di volontari della Società di San Vincenzo De Paoli presente in questa Casa Circondariale con diverse iniziative culturali, ricreative e sportive, mi aveva proposto di andare nelle carceri di Forlì a presentare il mio ultimo romanzo “La lunga notte di Rosetta”.

Giancarlo è un uomo buono e generoso che ha sempre saputo unire la sua professione di importante dirigente con quella di servizio per i deboli e bisognosi. Di qualsiasi tipo. E per questo riscuote la stima e fiducia mia e di tutti coloro che lo conoscono. Accettai con entusiasmo. Perché all’amico non dici di no e perché mi interessava entrare in un mondo da me mai vissuto.
Ne parlai con Roberto Casalini editore dei miei scritti e anch’egli, benché oberato di mille impegni, si rese disponibile senza esitazione. E infine come non chiamare l’attore Ilario Sirri che ha sempre letto magistralmente le mie pagine nelle presentazioni? La squadra era al completo.

Ed ora un po’ esitanti avevamo oltrepassato il portone d’ingresso nel cortile del castello che ospita, spero ancora per poco, le carceri di Forlì per incontrare i nostri nuovi amici.
Sono quasi tutti giovani, sotto i quarant’anni. Appaiono come ragazzi normali che potresti incontrare per strada, in un bar, allo stadio, in discoteca. Fidanzati, sposi, padri e forse tanti di loro lo sono. Ma per un destino amaro e, forse, talvolta ingiusto per un momento in cui hanno smarrito il controllo di loro stessi, sono precipitati nella colpa.
È accaduto. A loro, ma poteva accadere a me, ai miei amici, alla mia famiglia, ai miei figli. Spesso, quasi sempre, è l’ambiente dove nasci e vivi che ti porta fuori strada.

I primi sono arrivati alla spicciolata e poi gli altri tutti insieme. Ci hanno circondati, salutati con calore, mi hanno stretto la mano con forza e amicizia, il silenzio è stato rotto da un brusio dì parole, di saluti, ci siamo scambiati pacche sulle spalle con uno spirito di cordialità cameratesca.
Forse avevano bisogno di vedere visi nuovi, non le solite guardie, i soliti compagni di cella.

Venivamo da fuori, portavamo con noi il profumo della libertà, del mondo normale, avevamo percorso una strada, guidato un’auto, incontrato gente, passanti liberi di muoversi, insomma avevamo fatte cose normali per noi, ma non per loro. Ho cercato nei loro visi l’aspetto del predestinato al delitto, ma erano visi familiari, normali. Ho sempre pensato che ci sono due cose importanti per noi tutti delle quali comprendiamo l’importanza solo quando le perdiamo: la salute e la libertà. Sembra che entrambe ci siano dovute, che possiamo e dobbiamo essere sempre sani e liberi. Ma se abbiamo un raffreddore e qualcuno ci costringe anche a una piccola privazione del nostro libero arbitrio, ne soffriamo con angoscia. E loro, così giovani, hanno perso una di queste due fondamentali prerogative della vita: la libertà. Per colpa, probabilmente sì, ma non voglio saperlo e non indagherò. Tuttavia avrei voluto ascoltare e rubare le loro storie solo per me e perché no, per i mici scritti.

Mi ero chiesto nei giorni precedenti cosa avrei detto in questa nuova situazione e poi avevo pensato che la mia esperienza mi avrebbe suggerito le parole e qualcosa mi sarei inventato. Ma adesso ero lì, davanti a questo pubblico diverso, in silenzio che ascoltavo le introduzioni dei relatori, col cuore che mi batteva come accadeva durante un’interrogazione impreparato, con la salivazione azzerata e non sapevo cosa dire. Ecco, infatti, adesso ti voglio vedere tu che pensi di essere vecchio del mestiere. Adesso di che parli? Che dici?
Poi mi è venuto un’illuminazione improvvisa e salvatrice.

“Chi sono io per giudicare?”. Mi sono rifugiato, laicamente, nelle braccia confortanti di papa Francesco.
“Ragazzi, chi sono io per giudicare? Vorrei conoscervi singolarmente. Parlarvi guardandoci negli occhi, ascoltare se, come e perché avete fatto cose che vi hanno portato dietro queste sbarre. Sono certo molti di voi non hanno commesso nulla di grave, forse puniti da un giudice troppo severo, forse il vostro delitto era senza intenzione, oppure dettato dalla vita che vi ha portato a rubare, spacciare, violare, perché nati in un ambiente a rischio oppure commesso una colpa per un momento in cui avete perduto il controllo di voi stessi. Qualcuno potrebbe essere innocente, senza colpa e in attesa di processo. Se foste nati in un’altra famiglia, magari ricca o benestante, anche diverso sarebbe stato il vostro destino e ora sareste con la moglie, i figli, gli amici a festeggiare insieme questo sabato.” Questo avrei voluto dire, ma non l’ho fatto. Ho capito che avrei aperto un dibattito al quale non ero preparato e che ci avrebbe portato lontano.

Ma una bella discussione si è aperta ugualmente. Lo spettro degli argomenti è stato di ampio raggio. Denis (?) un giovane dell’Ecuador con insistenza ha proposto temi religiosi soprattutto nei rapporti della società con l’Islam, mentre le donne, da me provocate, hanno sostenuto con passione lo stato di inferiorità femminile che spesso è causa anche della loro fuoriuscita dalle regole della legge. A qualcuno era interessato il lavoro, ad altri i permessi di soggiorno in Italia. Ma in tanti sentivano forte il peso della giustizia che infierisce sui deboli e poveri.

Assieme a Giancarlo e Roberto abbiamo affrontato con loro anche questi argomenti, per i quali non eravamo preparati, non in tema. Ma non ci siamo chiamati fuori. Perché, giustamente, alla maggioranza di loro non interessava parlare dei miei libri, volevano sentirsi dire che la giustizia è ingiusta, che il mondo li punisce senza colpa, che i giudici sono forti coi deboli e deboli coi forti, perché i ricchi non vanno mai in galera, e le carceri sono piene di poveracci. Forse è vero, ma come dar loro torto?

E infine, come non restare colpiti dalla dottoressa Placido o dal dottor Spagnolo che ogni giorno si impegnano con onestà e in condizioni di estremo disagio nell’opera di rieducazione che dovrebbe essere lo scopo fondamentale, come prescrive la Costituzione, perche il carcere non è pena, ma riscatto.
Quando un ex detenuto ricade nel delitto la sconfitta, non è solo sua, è dello Stato e, soprattutto, di noi tutti.

A presto ragazzi, mi auguro ci darete un’altra occasione. Magari la prossima volta al bar o allo stadio a vedere insieme la partita.
E mai perdere la speranza!

Guido Pedrelli

Pubblicato giovedì 2 Aprile 2015 alle 00:01

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