Sui recenti avvicendamenti pastorali in parrocchie e uffici

Intervento del vescovo Douglas: “Crescere nella comunione e rafforzare la missione”

Quattordici sacerdoti e un diacono permanente in questi mesi assumeranno nuovi incarichi pastorali. Quindici comunità parrocchiali e due uffici diocesani vedranno cambiate le loro guide pastorali. Non è cosa di poco conto. Non tanto e non solo per i numeri. Per la comunità diocesana è una bella occasione per una riflessione che prenda decisamente il posto alle chiacchiere di corridoio così facili da fare in queste circostanze.

Fare chiacchiere con l’effetto di alimentare congetture nascoste di chissà quali progetti o intenzioni, di diffondere in un batter d’occhio cose non vere o quanto meno non documentate e di stuzzicare ipotetiche dietrologie inesistenti, sono un peccato grave, come recentemente ha affermato papa Francesco: “In una comunità cristiana (la chiacchiera) è uno dei peccati più gravi, perché la rende segno non dell’opera di Dio, ma dell’opera del diavolo, il quale è per definizione colui che separa, che rovina i rapporti, che insinua pregiudizi… La divisione in una comunità, sia essa una scuola, una parrocchia o un’associazione, è un peccato gravissimo” (Udienza generale, 27 agosto 2014).

Vorrei ricordare, anzitutto, che compete al vescovo, consultati gli organismi diocesani deputati, prendere decisioni circa l’affidamento di incarichi pastorali. Inutile e dannosa quindi ogni rivendicazione populista da parte di chiunque (associazioni, movimenti, comunità parrocchiali, singoli) di poter essere consultato preventivamente. Sento il peso della responsabilità che incombe su di me nell’assolvere a questo gravoso impegno del mio ministero. Mi verrebbe da ricordare a me stesso quanto capitò anche a Mosè (Dio mi perdoni il paragone!): Signore, non posso portare il peso di tutto questo popolo (cfr Num 11,14). Ma poiché mi sorregge la Grazia di Dio e sono convinto che il Signore non dà un peso e una responsabilità senza accompagnarlo con il suo aiuto, sono sereno e vorrei che, per lo stesso motivo, lo fossero anche i sacerdoti, i diaconi e i laici interessati a questi cambiamenti pastorali.

Questi cambiamenti pastorali inducono ad alcune riflessioni. Ne vorrei raccogliere due. La prima riguarda il tema della Chiesa. Nelle vicende connesse a tali trasferimenti quale Chiesa vogliamo edificare? La risposta è chiara: quella di Gesù Cristo, quella voluta da Lui, quella da Lui pensata quando ha cominciato a raccogliere attorno a sé gli apostoli e poi, dopo aver versato il suo sangue sulla croce, essere risorto e aver mandato il Suo Spirito, ha aggregato agli apostoli altri discepoli, prima in Palestina e poi nel mondo intero, fino agli estremi confini della terra (cfr Mt 28,20). Quali le caratteristiche di queste comunità? Le desumiamo dal libro degli Atti degli Apostoli (cfr At 2,42-47): stare insieme nella carità ma non chiusi in se stessi bensì aperti al mondo, in missione. Il Concilio Vaticano II, raccogliendo l’eredità secolare, anzi bimillenaria, della vita della Chiesa ha rilanciato queste caratteristiche col felice binomio: comunione e missione (cfr Lumen gentium, 1.9). Comunione e missione accompagnano lo spirito, le intenzioni, i desideri e i progetti del sacerdote che lascia un incarico e ne assume un altro in forza dell’obbedienza che ha espresso il giorno della ordinazione davanti al vescovo e alla comunità ecclesiale. Ma accompagnano anche le comunità parrocchiali che vedono partire il loro presbitero per un’altra missione e accolgono il nuovo missionario. Comunione e missione devono stare sempre insieme. Sono ingredienti indispensabili se vogliamo costruire la Chiesa di Gesù. In alternativa, purtroppo, non c’è che la chiusura, l’intristimento della vita cristiana appiattita sul proprio piccolo particolare, l’incapacità di guardare oltre…

Per vivere tutto questo – e questa è la seconda riflessione – si richiede capacità di rinnovamento e di conversione, cioè disponibilità a rimettere in discussione se stessi. Quando diciamo conversione rischiamo di pensarla unicamente in riferimento a eventi straordinari di grandi uomini, diventati poi santi (san Paolo, sant’Agostino, sant’Ignazio di Loyola, ecc). C’è una conversione a cui siamo chiamati: è quella che ci permette di affinare sempre più e meglio la nostra adesione a Cristo, superando limiti, cadute, peccati, nel nostro quotidiano spesso nascosto ai più. Nelle circostanze di cui stiamo parlando, ci può prendere la delusione, lo sconforto, la paura del futuro, ecc. Ecco, è il momento – se abbiamo fede in Cristo e nella sua Chiesa – di rialzarci e di riprendere il cammino, fidandoci dello Spirito Santo che continua a guidare la Chiesa. L’invito che Gesù fece un giorno a Pietro: Duc in altum! (Lc 5, 4) fu ripreso da san Giovanni Paolo II e da lui rilanciato alla Chiesa universale, all’inizio del terzo millennio dell’era cristiana: “Duc in altum!”. Questa parola risuona oggi per noi, e ci invita a fare memoria grata del passato, a vivere con passione il presente, ad aprirci con fiducia al futuro: “Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre!” (Eb 13,8) (Novo millennio ineunte, 1). È lo stesso invito che il Signore fa oggi alle nostre comunità ecclesiali. È importante e bello che tutti possiamo ridire, con rinnovato entusiasmo: sulla tua parola, Signore, getterò le mie reti… (cfr Lc 5,5).

Douglas,
vescovo

Pubblicato giovedì 11 Settembre 2014 alle 00:03

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