Migrazioni, albori culturali e miopia politica

di Silvano Ridolfi

In questi giorni si moltiplicano – più al nord e sud Italia che al centro – gli incontri di emigrati italiani in vacanza nei Paesi di origine e anche presso santuari insieme alle loro associazioni (Festa del ritorno, Sagra del migrante, ecc.). Sono nostri connazionali in buona parte stabilizzatisi in Paesi europei o oltreoceano.

Il contrasto con la realtà quotidiana del momento in Italia e in Europa è forte. Perché quotidianamente vediamo gommoni stracolmi di povera gente, in buona parte africani, ma anche medio-orientali e asiatici. Grandi occhi stralunati di bambini, donne in evidente gravidanza, piedi scalzi, corpi avvolti nelle giubbe termiche ricevute contro la ipotermia della sempre tragica traversata. Sbarcano infatti sempre anche salme. Senza contare i tanti che il mare ha inghiottito (circa 500 nei primi mesi del 2017 e oltre 30mila negli ultimi quindici anni!).

Il pensiero va ancora ai nostri emigrati dell’Ottocento nelle loro traversate verso le Americhe, stipati nelle stive sporche e male odoranti della super terza classe e anche ai treni inverosimilmente stracolmi di persone e valigie diretti verso i Paesi europei nel dopoguerra.

Eppure le due emigrazioni narrano un medesimo anelito: la disperazione di una speranza, la libertà in un lavoro sicuro, una vita sana e dignitosa, la forza unificante della famiglia, un ambiente nuovo dove “sentirsi di casa”. E parlano, non di rado inconsciamente, di nuovi orizzonti culturali nel superamento di barriere esclusive, nella realizzazione di comunità variegate, libere e unite, in nuove relazioni di dare e avere. Si intravede l’orizzonte culturale ultimo, che richiama l’inizio della creazione, del mondo intero al servizio di tutti che lentamente si avvicina nelle evidenti doglie di un travagliato parto. È un “cambiamento d’epoca” (papa Francesco).

Tutto questo appare con maggiore evidenza nella emigrazione da un’Africa che vuole sciogliere le ultime catene in cui è stata costretta da secoli, che sorge da un epocale torpore di sudditanza in cui era stata relegata non da ultimo anche dal colonialismo del vecchio mondo. Volenti o nolenti, la storia va sempre più velocemente verso questa direzione, e sperabilmente senza violenza.

Anche geograficamente e demograficamente i numeri sono eloquenti. L’Africa, con 54 Stati riconosciuti, ha una superficie tre volte superiore a quella dell’intera Europa con i sui 45 Stati e una popolazione di oltre un miliardo e 100mila abitanti contro i nemmeno 700 milioni di europei. E mentre la popolazione africana è giovane, l’Europa invecchia di anno in anno con le poche nascite che non compensano le molte morti. E del nostro benessere, frutto anche delle materie prime venduteci a buon mercato dall’Africa, finora sono tornate in quel continente soltanto briciole.

Non è forse chiaro che l’attuale movimento migratorio è ineludibile e inarrestabile? Che non è un fenomeno puramente economico, bensì primariamente culturale? Che non può essere trattato con norme di sicurezza poliziesche o con inefficaci barriere fisiche? Noi italiani dovremmo avere appreso qualcosa anche dal fenomeno simile delle migrazioni interne dal sud al nord. La polemica terroni/polentoni non dice nulla?

Questo problema culturale ed economico non può essere rimosso, ma va governato. E precisamente con metodi e interventi culturali primieramente: istruzione, informazione, inclusione. Trattarlo alla superficie e non andare alle radici è un grave errore e una miopia tipica del politico partiticamente orientato (leggi: ricerca di voti) dannosa a tutti.

Il politico illuminato dovrebbe vedere e orientarsi oltre. Lo jus solis (il territorio) e lo jus culturae (la formazione) – e aggiungerei lo jus laboris (la cooperazione) – sono strumenti che vanno in questa direzione e certamente sono più efficaci della piuttosto pilatesca rimozione del problema dando miliardi alla Turchia e milioni e navi alla Algeria e alla Libia per fermare il flusso (lontano dagli occhi, lontano dal cuore).

Ovviamente sono strumenti che vanno ben studiati, adeguatamente definiti e poi decisamente attuati sia pure con gradualità logica e condizioni chiare. Credo che l’esperienza dei missionari, eroi della condivisione e accoglienza, possa dire qualcosa.

E, last but not least, la distinzione tra profughi politici ed emigranti economici va fatta per diversità di tipologia e di esigenze, ma non per ignorare che morire per guerra o per fame o per condizioni ambientali la differenza è davvero poca.

Pubblicato giovedì 20 Luglio 2017 alle 00:02

Trattandosi di un vecchio articolo non è più possibile commentare.

Brevi quotidiane

Ultimi articoli

Ultimi interventi

Parole di Vita

Archivio Documenti