Chi soffre è più della sua malattia

di Mauro Cozzoli*

La vicenda del piccolo Charlie, affetto da una grave malattia genetica, inquieta le coscienze e tocca i cuori. L’esito della sua vita è stata decisa per decreto della Corte europea dei diritti umani, cui si erano rivolti i genitori nella speranza di sovvertire la sentenza di tre Tribunali inglesi che autorizzavano i medici del Great Ormond Street Hospital di Londra a cessare i trattamenti sanitari sul loro bambino. Attesa delusa perché la Corte europea ha confermato quella sentenza che decreta la morte del bambino.

Sentenza – è stato dichiarato – pronunciata nell’interesse del piccolo Charlie, per sottrarlo a sofferenze penose e a terapie inutili, e con esse a forme di accanimento terapeutico.

Ma è davvero questo il supremo interesse del bambino, stante la possibilità – intrapresa dai genitori, grazie a donazioni da tutto il mondo volte a sostenerli – di portare il bambino negli Stati Uniti e sottoporlo a “un protocollo terapeutico sperimentale presso un centro di riconosciuta competenza scientifica ed esperienza clinica nel trattamento” di malattie come quella di Charlie?

È vero che le speranze allo stato attuale della ricerca sono flebili. Ma “bisogna prendere atto – ammette Domenico Coviello, direttore del Laboratorio di genetica umana dell’Ospedale Galliera di Genova – che la scienza non sa tutto. Quando non conosciamo una terapia o una via di uscita dobbiamo dirlo, ma non si può obbligare a togliere la speranza o la potestà di agire dei genitori”. Quand’anche la cura, ancora sperimentale, non desse gli esiti sperati per il bambino, contribuirebbe al progresso della ricerca, in vista dei benefici che ne possono derivare per altri bambini in futuro.

Come si può impedire questo? Come si può deludere la speranza dei genitori di strappare il loro bambino alla morte per la via di cure al momento solo sperimentali?

Interrogativi che mettono in luce l’approccio debole e parziale dei medici e dei giudici a un caso umano che merita un’attenzione ampia e d’insieme.

Un individuo che soffre è molto di più della sua malattia. Il piccolo Charlie è molto di più del suo male. Questo Chris e Connie, il papà e la mamma di Charlie, lo percepiscono e ne hanno difeso il valore e il diritto sino alla fine. La gente che ha solidarizzato, anche economicamente, con loro lo coglie. I medici del Great Ormond Street Hospital e i magistrati delle Corti di Londra e Strasburgo invece no.

In questo “molto di più” c’è l’umano e la sua differenza. Il biodiritto, come la bioetica, non deve perderlo. È il “molto di più” della persona e della sua vita, da far valere sempre.

Ma che una concezione cosale e quantistica della vita e della sua qualità tendono a smarrire. È per questo che il caso del piccolo Charlie, e di Chris e Connie accanto a lui, non finisce con la sentenza della Corte europea. È un caso che giudica quella sentenza, con la carica di umanità che da esso trabocca. E chiama medici e magistrati a una valutazione complessiva e inclusiva dei casi clinici.

Nei casi dubbi e contrastanti la sapienza etica e giuridica è per il favor vitae: sta dalla parte della vita. Non fosse altro perché lo sono i genitori di Charlie e lo sono con tutto il loro coinvolgimento affettivo e fisico. La loro scelta obbliga: medici e giudici avrebbero dovuto tenerne conto. Non si tratta di cercare la vita ad ogni costo, di ostinazione terapeutica quindi. Si tratta di custodire una vita piccola e debole, finché c’è la speranza di una cura e un amore che la sorregge.

Custodia e amore che hanno un grande valore e un forte impatto educativo, in una socio-cultura segnata da troppi sintomi e sgomenti di morte.

* Ordinario di teologia morale
alla Pontificia università lateranense

Corriere Cesenate 26-2017

Pubblicato martedì 4 Luglio 2017 alle 18:30

Una risposta a “Chi soffre è più della sua malattia”

Commenti

  1. Antonio 09 Lug 2017 / 14:47

    Buongiorno, ho letto attentamente l’articolo del dott Cozzoli: “Chi soffre è più della sua malattia”, anzi, l’ho letto due volte per evitare che mi fosse sfuggito un richiamo a Cristo. Non mi era sfuggito, perché non c’è alcun riferimento a Cristo e alla sua potenza evocatrice. Mi aspettavo che un Ordinario di teologia morale alla Pontificia università lateranense, in questo suo intervento occasionale, potesse, teologicamente, legare l’esperienza del piccolo Charlie non solo ad una questione di “biodiritto” o di “bioetica”, ma soprattutto al rapporto dolore- Cristo che invece è argomento centrale dell’articolo “Come parlare di Dio nel momento della sofferenza” a pag 5 della rivista, ma con una differenza che l’argomento Dio-sofferenza se è protagonista all’interno di un convento francescano, quello di Longiano, sembra essere argomento secondario, non nominato, in quello che definisco laicismo teologico in cui la Bioetica sembra aver preso il posto della sostanzialità esistenziale dell’essere umano in rapporto con il fine ultimo della vita che è l’unione a Cristo. Tant’è che anche nell’articolo di Adriano Pessina, direttore del centro di Ateneo di Bioetica dell’università Cattolica del Sacro Cuore, nessun cenno a Dio o a Cristo è stato fatto con la sua riflessione legata al piccolo Charlie. la Bioetica se trattata da Università laiche come la Sapienza di Roma o la Bocconi di Milano non desterebbe meraviglia se il nome di Cristo in rapporto alla sofferenze fosse assente, ma da due ordinari universitari di due università cattoliche, beh, questa assenza non può essere un caso o una coincidenza, ma, piuttosto, essere la norma. Concludo chiedendomi se forse la teologia laica ( ossia il buon sentimento che non ha il coraggio di sconfinare nelle “cose di Dio”) stia prendendo il sopravvento nella nostra mentalità di cattolici? Chiedo questo perché tempo fa sentii il dovere di scrivere a Famiglia Cristiana che aveva collegata la ricerca della felicità alla collana di Psicologia che dava, in volumetti settimanali, assieme alla rivista, rimproverando al direttore che la cosa “stonava” moltissimo con la parola “cristiana” del titolo della rivista. Credo che il coraggio di parlare di Cristo in tutte le esperienze positive e negative della vita umana, stia diventando retaggio di pochi coraggiosi. E non mi riferisco ai sacerdoti e alle loro omelie.
    Buona giornata

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