Storia e memoria di un genocidio a lungo taciuto

“Nessuno, paziente lettore, è più tornato nella piccola città”. Si chiude con la voce della narratrice, Antonia Arslan, ’La masseria delle allodole’, il romanzo che ha fatto conoscere il genocidio armeno. I fili della storia – di una tragedia collettiva di cui si conosce poco e di cui parla malvolentieri, quando non si nega – si intrecciano con quelli della vita della scrittrice nata a Padova nel 1938.

Arslan ha incontrato il pubblico alla Biblioteca Malatestiana il 25 maggio nell’iniziativa promossa dall’associazione Fidapa nell’ambito del Festival della comunicazione, anticipata qualche giorno prima dalla visione della pellicola dei fratelli Taviani tratta dal suo romanzo più celebre.

“Perché se sapevo dello sterminio dei miei antenati ho atteso così tanto prima di scriverne? Dentro di me avevo depositate le memorie confidatemi da mio nonno Yerwant quando ero bambina: mi raccontò quello che non aveva mai detto ai suoi figli. Non rinnegavo questo passato, ma non mi sognavo di raccontarlo in giro”, racconta Arslan. Poi una serie di eventi legati alle sue origini, tra cui la scoperta del poeta Daniel Varujan, la spinsero a svelare al mondo i segreti che custodiva nel suo cuore. “Se sei collegato in parte a questa storia, senti il peso delle anime morte di stenti nel deserto”, commenta. Nacque così ’La masseria delle allodole’, che è diventata una trilogia con ’La strada per Smirne’ e ’Il rumore delle perle di legno’ a cui si è aggiunto il recente ’Lettera a una ragazza in Turchia’. Il primo volume è arrivato alla 36° edizione: il successo decretato dai lettori italiani l’ha catapultato oltre confine.

I protagonisti della vicenda sono suoi antenati, quasi tutti vittime delle persecuzioni etniche. Tranne il nonno Yerwant che ha lasciato giovanissimo l’Armenia per studiare in Italia e qui divenne medico, sposò una nobildonna italiana e visse a Padova. Ma non aveva dimenticato le sue radici: nel 1915 volle tornare in Italia, ma a maggio il nostro Paese entrò in guerra e chiuse le frontiere, mentre il partito dei Giovani Turchi inseguiva il mito di un Paese in cui non c’era posto per le minoranze. Così si salvò, mentre i due terzi della famiglia fu sterminata.

A cavallo tra il 1915 e il 1916 morirono oltre un milione di armeni: massacrati gli uomini e deportate in massa le donne nel deserto siriano, un’odissea segnata da marce forzate e campi di prigionia, fame e sete, umiliazioni e crudeltà. Il “primo genocidio moderno” l’ha definito papa Francesco. “Un’operazione di pulizia etnica copiata in seguito da Hitler”, ha sottolineato Arslan.

Il genocidio armeno fu riconosciuto nel 1985 dall’Onu e nell’87 dal Parlamento europeo e attualmente da una trentina di Paesi, tra cui l’Italia. “E’ stato cancellato nel 1924 per motivi politici e per 60 anni non se ne è potuto parlare – spiega Arslan, che è stata docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova -. E’ un argomento storico in continua evoluzione. Ancora oggi esiste un negazionismo, in primis della Turchia, virulento e indegno e le nazioni che ancora non lo riconosco sono spinte da interessi commerciali”.

Francesca Siroli

Pubblicato giovedì 1 Giugno 2017 alle 00:01

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