Resistenza e 25 aprile: ancora sulla lettera dell’editore Casalini. Tra i lettori si avverte un gran bisogno di riconciliazione

Caro direttore,
il 25 aprile 1945 non ero ancora nata, quindi non posso avere ricordi diretti, né essere stata testimone di quanto accaduto. Mio padre, tuttavia, fu uno dei seicentomila italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre e fu tra coloro che preferirono il lager all’arruolamento nella Repubblica Sociale.

Questo per premettere che, per educazione familiare, non posso essere nostalgica di un regime che tanto male ha fatto al nostro Paese e, inoltre, faccio tuttora fatica a comprendere la scelta di quelli che rimasero fedeli a un uomo che, oltre ad aver cancellato le libertà civili, aveva trascinato l’Italia in una guerra senza scusa e senza onore, come disse Nenni.

Tuttavia, i fatti sono fatti, affermò Matteotti nel suo memorabile discorso di denuncia delle violenze squadriste per le elezioni del 1924, quindi è da essi che occorre partire.

Molti italiani, dunque, scelsero la fedeltà al fascismo e, in base ai documenti, non tutti lo fecero per motivi ignobili, di sadismo o di vendetta. Già anni fa, Luciano Violante aveva parlato dei “ragazzi di Salò”, invitando a riconsiderarne la posizione senza odio e l’ex presidente Napolitano, una volta, pur elogiando la data del 25 aprile, mise in luce che la Resistenza, oltre alle tante pagine eroiche e limpide, aveva conosciuto zone d’ombra, eccessi e aberrazioni. Come si vede, a parlare non furono dei fascisti dichiarati come Pisanò o Almirante.

Eppure, la replica del dott. Casalini evidenzia come sia ancora difficile a 7 decenni di distanza prendere atto di una realtà che dovrebbe essere evidente: la guerra degrada l’uomo e la guerra civile lo degrada il doppio.

Inoltre, non si possono, di qualunque fenomeno storico, narrare solo le pagine belle (che ci sono) e tacere le brutte (che ci sono anch’esse): sarebbe una totale mancanza di scientificità. Ritengo, quindi, più che giusto ricordare tutti i morti, perché la morte, il sangue, la sofferenza non hanno colore, né parte politica.

Ricordare non significa condividere la causa, ma dare occasione di esprimere una presenza, senza cancellare, nascondere, tappare la bocca a nessuno. Lo si è fatto per il Risorgimento (vedi il massacro di Bronte), è tempo di farlo anche per la Resistenza, se vogliamo arrivare come italiani a una memoria storica accettata e superare quel “mos partium atque factionum” (abitudine a scannarsi tra parti contrapposte) già deplorato da Sallustio nel primo secolo a C. come nocivo per lo Stato e la società civile.

Nicoletta Navacchia

Egregio direttore,
vedo che andare a toccare certi argomenti, anche se sono passati oltre 70 anni, risveglia gli animi e, dato che non vorrei fossero i soliti “animi” ad esprimersi, avrei il piacere di condividere con Lei alcune mie riflessioni.

Ricordare le persone tragicamente uccise da una o dall’altra fazione non penso debba ledere il ricordo di tanti giovani che hanno dato la vita perché noi oggi avessimo la Libertà per la quale hanno creduto e lottato. Inutile ricordare che soldati di altre nazioni sono venuti in Italia a combattere e molti a morire per liberarla dalla dittatura e poi, dopo l’8 settembre, dall’invasore. Che pochi libri di storia raccontino quello che successe dopo la liberazione non vuol dire che certi fatti non siano accaduti. E che le persone che furono uccise non meritino un ricordo.

Vorrei farle presente, caro direttore, che a Cesena non ci furono solo i 17 ammazzati alla Rocca. Per non pensare che sono un parente delle persone uccise dopo la fine della guerra, la informo che lo zio di mio padre era Ezio Casadei, partigiano da subito, fucilato a Stia e insignito della Medaglia d’Argento al Valor Militare, e che anche mio nonno, Dino Montesi, era partigiano con il nome di battaglia “Cin cian”. Quest’ultimo mi ricordava sempre l’importanza della Libertà, ma anche la crudeltà della guerra e, che alla fine di quest’ultima tanti si sono dichiarati partigiani, ma che in montagna ne aveva visti di meno. Ma questa, direttore, è sicuramente un’altra storia…
Con cordialità,

Marco Montesi

Signor direttore,
lei è colpevole per avere osato chiedere un minimo di verità storica locale per un ricordo sui morti della Rocca nel maggio 1945; ma soprattutto di avere dato spazio a un “provocatore“ e per “l’indecenza“ del Suo editoriale. Una mazzata inattesa per tale Roberto Casalini che ne è rimasto “tramortito e addolorato“. (…)

Intanto è bene chiarire al nostro che il colpo gli ha causato un calo di lucidità; un qui pro quo circa “l’ennesima giaculatoria” di Giorgio Villa. Signor Casalini la tiritera è mia e io sono Sergio Villa. Giorgio era mio fratello, una cara persona, un insegnante e artista polièdrico mancato purtroppo cinque anni fa, ma ancora oggi ricordato da tanti suoi studenti e da chi ha avuto il privilegio di conoscerlo. Sminuire il mio scritto più che un’ironia è un insulto; è il suo stile. (…)

Il Casalini nel suo panegìrico ci accusa di nasconderci dietro episodi gravissimi e dolorosi; lo ammette, bontà sua ma anche obtorto collo, ma che “in nulla scalfiscono la grandezza e il significato della resistenza”, dice. È la sua opinione, non la mia; il martirio di Rolando Rivi e tanti episodi scalfiscono eccome tale dogma secondo il canone della sinistra.

Tanto per la cronaca è recente la messa all’indice dei libri di Pansa dalla biblioteca comunale di Ferrara perché politicamente scorretti. E si chiamano democratici progressisti. Nel suo libro – La Grande Bugia, le sinistre italiane e il sangue dei vinti – ha messo la citazione dal primo messaggio al Parlamento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il 15 maggio 2006: “Ci si può ormai ritrovare, superando vecchie laceranti divisioni, nel riconoscimento del significato e del decisivo apporto della Resistenza, pur senza ignorare zone d’ombra, eccessi e aberrazioni”.
Ne prenda atto signor Casalini.

Cordiali saluti.
Sergio Villa – Cesena

Carissimi tutti,
lettori, amici, conoscenti e quanti in ogni modo in queste due settimane mi avete fatto giungere attestazioni di stima e affetto. Vi ringrazio e allo stesso tempo chiedo scusa perché lo spazio è tiranno. Anche in questa edizione sono costretto a tagliare pesantemente e a non pubblicare altri scritti giunti in redazione.

Credo e spero allo stesso tempo di riuscire a fare comprendere cosa ha suscitato in moltissime persone la lettera di Roberto Casalini. Avverto nei lettori un gran bisogno di riconciliazione, di confronto sereno, schietto e sincero. Costruttivo anche, capace di andare oltre gli steccati di un tempo. Divisioni da superare se si vuole costruire qualcosa di nuovo insieme. Per andare avanti e non per guardarci indietro, dove il percorso è ancora costellato di troppe zone buie.

Puntiamo lo sguardo al futuro, alle nuove generazioni, liberi da pregiudizi e dalle ideologie che troppi danni hanno fatto a ogni latitudine. “Ricordare non significa condividere la causa – appunta con acutezza la professoressa Navacchia che ha avuto il padre deportato in Germania – ma dare occasione di esprimere una presenza, senza cancellare, nascondere, tappare la bocca a nessuno”.

Ecco, credo che da qui si debba ripartire, senza rancori, senza risentimenti, senza paure, ma tutti quanti alla ricerca della verità. Per sapere dove andare, si ricorda spesso, occorre conoscere da dove si viene. Niente mitizzazioni e niente revisionismi. Solo il desiderio di poter condividere la storia dei nostri padri, con le sue luci e le sue ombre.

Sono fiducioso.

Francesco Zanotti
zanotti@corrierecesenate.it

Pubblicato giovedì 19 Maggio 2016 alle 00:01

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