Il suicidio “offerto” in televisione

Caro direttore,
l’altra sera ho pianto davanti alla televisione. Ho quasi urlato contro lo schermo “no, no, no lo fare”. Ero allibita, incredula, atterrita. Un groppo allo stomaco mi ha preso, il terrore ha invaso il mio corpo, ero paralizzata e agitata allo stesso tempo. Non potevo credere ai miei occhi. Stavo facendo zapping tra un talk show e una serie televisiva e in pochi minuti mi sono trovata dinnanzi ad un suicidio. Un donna in Svizzera si stava dando la morte e le telecamere stavano filmando tutto come un tutorial. Ho visto quando deliberatamente ha preso il bicchierino con il veleno mortale, quando lo ha bevuto, quando lamentandosi per il cattivo gusto della sostanza letale ha ricevuto un cioccolatino e nel giro di pochi minuti la telecamera ha mostrato i suoi occhi chiudersi e la morte sopraggiungere. Tutto questo è stato trasmesso su Italia1 intorno alle 11 di sera di lunedì 23 novembre.

Immagini di una violenza indicibile che hanno banalizzato la morte, hanno fatto pubblicità al suicidio assistito, paragonando il diritto di morire a quello di vivere. Ma come possiamo tollerare tutto questo? Come possiamo abbandonare ogni pudore, moralità e cura per l’uomo? E questa donna, sola con una sconosciuta davanti che le ha fatto la domanda di rito “vuoi tu morire in questo momento?”. Agghiacciante, vergognoso e soprattutto violento. Una violenza ideologica che non ha precedenti. Come mamma, cristiana e giornalista mi discosto da tutto questo. Viviani, il giornalista che ha composto il lungo servizio di 26 minuti pro eutanasia e pro suicidio assistito, non ha fatto un buon servizio alla sua comunità, anzi deontologicamente è stato sbagliato offrire al grande pubblico le riprese di una morte, soprattutto di un suicidio, e dare da intendere come sia tutto così facile, naturale e normale compiere questo gesto.

Sono cresciuta professionalmente con l’idea che il giornalista ha anche un dovere educativo nei confronti del pubblico. Mi hanno insegnato che i suicidi in pagina non vengono pubblicati per evitare l’effetto emulazione. E’ molto chiaro ciò’ che riferisce Carta dei Doveri del giornalista siglata l’8 luglio 1993 dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana della quale molte indicazioni sono poi diventate “norme di legge” con l’emanazione del codice di deontologia del 1998. In essa è contenuta la norma che vieta al giornalista di “pubblicare immagini o fotografie particolarmente raccapriccianti di soggetti coinvolti in fatti di cronaca, o comunque lesive della dignità della persona”. La norma riproduce, almeno in parte, l’art. 15 L. n. 47/1948 (“legge sulla stampa”), che estende l’applicazione dell’art. 528 del codice penale (“Pubblicazioni e spettacoli osceni”) al “caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”

Il servizio televisivo andato in onda lunedì che scopo aveva se non quello di pubblicizzare l’operato delle “cliniche” di suicidio assistito in Svizzera e sostenere in maniera becera, vergognosa e insensata come è semplice, giusto e normale darsi la morte e l’ideologia che sta dietro il diritto di morire?

A tal proposito riporto le parole che nel 2009, all’indomani della morte di Eluana Englaro, Marco Maltoni, medico di Forlì e luminare delle cure palliative in Italia mi ha riferito durante un’intervista in relazione al suicidio assistito e al diritto di autodeterminazione rivendicato da chi chiede una legge sul fine vita.

“Io non mi autodetermino in niente. Non autodetermino nemmeno un raffreddore. Le circostanze che ho intorno sono in relazione con me quindi la mia autodeterminazione è limitata. Facciamo un esempio. Se volessimo estrapolare quest’autodeterminazione al massimo grado dovremmo giudicare, come alcuni fanno, il suicidio un valore. Noi dovremmo dire che il desiderio disperato di darsi la morte diventa un diritto. La società dovrebbe poter promuovere il fatto che quando una ragazzina anoressica non ce la fa più a campare, che quando un paziente psichiatrico non riesce ad andare avanti, quando un grande anziano sente un peso per i suoi familiari, allora il suicidio può essere assecondato. Tutto questo non può essere. Infatti in Svizzera dove il suicidio assistito viene richiesto dal 10 per cento della popolazione c’è adesso un grandissimo correre ai ripari perché s’è notato che tale pratica è giudicata un valore. Ma è una società malata quella che considera il niente meglio di una vita difficoltosa!

La disperazione che sta dietro alla richiesta di una morte procurata invece va affrontata con un altro sostegno, non assecondando questo desiderio e facendolo diventare un diritto altrimenti miriamo all’autodistruzione.

L’autodeterminazione non è realistica nella vita di tutti i giorni. Se si considerasse il suicidio un valore: nessuno salverebbe più un malato che arriva al pronto soccorso con il tentato suicidio, nessuno tirerebbe indietro uno che si sta buttando giù dal ponte per rispettare la sofferenza di chi si sta uccidendo”.

Barbara Baronio

Carissima Barbara,
ti ringrazio moltissimo per questa tua segnalazione. Non credo di avere molto altro da aggiungere. Da giornalisti dobbiamo sempre chiederci quale effetto possono avere le parole che pubblichiamo, le foto che mettiamo in pagina, i servizi tv e quelli radiofonici che vanno in onda. E ai tempi dei social media, la stessa attenzione dobbiamo avere anche per tutto quello che postiamo online.

“Le parole sono come pietre”, ripeto in tutte le occasioni che ho di poter parlare della nostra appassionante, ma anche complicata, professione. E aggiungo, “peggio delle pietre”. Perché le pietre cadono, mentre le parole restano scritte per sempre. Con la Rete, oggi più che mai. Quindi, hai fatto benissimo a segnalare i rischi di certe trasmissioni. Attenzione, allora, a non cadere nella trappola.

Soluzione? Si cambia canale subito o si spegne il televisore.

Ciao.
Francesco Zanotti
zanotti@corrierecesenate.it

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Pubblicato mercoledì 25 Novembre 2015 alle 14:44

Una risposta a “Il suicidio “offerto” in televisione”

Commenti

  1. Luca Pitti 15 Dic 2015 / 17:14

    La soluzione che propone il direttore è da molto anche la mia. Ormai (pur continuando a dover pagare il canone) guardo poco o punto la tv, perché è invasa da programmi spazzatura, volgari, falsi, antieducativi, dove la maleducazione oltre che essere spesso costruita a tavolino è sempre più frequente.
    E non fanno eccezione nemmeno i telegiornali, una volta momento di informazione, magari di parte come oggi, ma organico e professionale, oggi diventati un calderone dove viene messo dentro, oltre a pubblicità (!) anche notizie banali, video stupidi presi con nessuna fatica da Internet etc…
    Certo il programma di cui parla la signora Barbara va ben oltre, ma a buon conto, è degno figlio di tale degenerata mamma tv.
    Perché se fai parte di una televisione urlata, alla fine urlare non basta più al giornalista che cerca solo sensazionalismi.. e allora si va oltre.

    Ma questa soluzione non è e non deve essere l’unica. Altrimenti facciamo la fine dello struzzo. Deve esserci nel contempo e soprattutto una voce di protesta e di sdegno verso certi giornalisti. Da tutti ma ancor di più da chi è giornalista anch’esso, e non desidera vedere sempre più di frequente infangata la sua categoria.
    E quando un giornalista supera non solo le norme del buon senso, ma anche quelle di legge, come ben detto da Barbara, allora che venga radiato dall’albo. Ma, ripeto a chiedere questo non devono essere solo i cittadini, bensì in primis i colleghi, nell’interesse di tutti.

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