La Chiesa cesenate nei giorni dell’ira

Uno dei luoghi dove la Resistenza contro il regime era maggiore e dove le critiche trovavano più spazio era la sacrestia del Duomo. L’antifascismo di monsignor Ravaglia e don Urbini

di Claudio Riva

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Hitler tolse molte truppe dal fronte russo per mandarle in Italia al fine di contrastare l’avanzata degli angloamericani che erano già sbarcati in Sicilia, Sardegna e Italia meridionale. Di fatto ebbe inizio, da parte dei tedeschi, un’occupazione vera e propria dell’Italia. A Cesena il comando militare tedesco si insediò il 13 settembre. Con l’introduzione del coprifuoco la città fu praticamente sottomessa.

Con una situazione generale incerta e confusa, il territorio italiano venne a trovarsi spaccato in due e mentre al Centro Nord, occupato e tenacemente difeso dai Tedeschi, si viveva sotto l’incubo dei rastrellamenti, delle deportazioni e delle stragi, al Sud, liberato dalla conquista angloamericana, si assaporava il gusto della ritrovata libertà. Presa l’Italia centrale, il piano del Comando Alleato per la conquista del Nord prevedeva l’attacco nel settore adriatico, dove il baluardo appenninico era più basso, e pertanto più facile da superare, e dove si poteva pure usufruire della stretta fascia pianeggiante fra le ultime colline e il mare. Pertanto, rispetto ai passi del crinale appenninico di tutta la Linea Gotica, il settore adriatico costituiva, per i mezzi corazzati alleati, il transito meno difficile per raggiungere più facilmente la pianura padana. Ecco perché la Romagna divenne un importante e, nello stesso tempo, tragico teatro di guerra: da una parte i Tedeschi (della X Armata Germanica, agli ordini del generale Heinrich von Vietinghoff- Scheel) che, costretti alla ritirata, minavano quanto non potevano portare via e facevano saltare ponti e linee ferrate; dall’altra gli Alleati (della VIII Armata Britannica, comandata fino alla fine di settembre dal generale sir Oliver Leese e poi dal generale sir Richard Creery) che, con i loro ingenti mezzi bellici, effettuavano massicci e terribili bombardamenti, particolarmente pesanti per le inermi popolazioni.

I bombardamenti e la liberazione

Di questo grande e generale calvario, ricordiamo i momenti più dolorosi per Cesena:

13 maggio: stormi di bombardieri angloamericani rovesciano a casaccio tonnellate di bombe con strage di civili (oltre 100 morti e oltre 150 feriti), interruzione di strade e distruzione della chiesa di San Pietro;

29 giugno: una delle più terribili giornate di fuoco: ben nove bombardamenti pesanti degli angloamericani contro la stazione ferroviaria, la Montecatini e l’Arrigoni con 5 morti;

29 luglio: minamento da parte dei tedeschi delle centrale idroelettrica di Quarto;

30 agosto: altro duro bombardamento angloamericano con 7 morti;

22 settembre: bombardamento angloamericano della corriera di linea Cesena-San Carlo con 6 morti e vari feriti;

27 settembre: distruzione parziale della centrale idroelettrica di Mulino Cento, minata dai tedeschi;

15-18 ottobre: distruzione dell’abbazia del Monte da parte dell’aviazione angloamericana;

19 ottobre: messa fuori uso della centrale dell’acquedotto da parte dei Tedeschi. L’incubo finiva per Cesena il 20 ottobre con la ritirata dei tedeschi e con l’entrata in città delle pattuglie canadesi (da Porta Santi) e delle pattuglie inglesi (dalle colline). Con la presa di Cesena aveva termine quella che venne chiamata la battaglia di Rimini.

Il clero cesenate

Per il grande ascendente di don Giovanni Ravaglia (parroco del Duomo e vecchio sacerdote murriano, popolare e antifascista) si conoscevano da tempo le scarse indulgenze di buona parte del clero cesenate verso il regime fascista. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale il sentimento contrario al regime crebbe ed uno dei luoghi dove l’astio era maggiore e dove le critiche trovavano, indisturbate, più spazio era la sacrestia del Duomo, dove alcuni preti, capitanati dal giovane don Lazzaro Urbini, fedelissimo di don Ravaglia, facevano propaganda politica parlando male del regime fascista e imprecando contro il Duce, il Re, e il Fuhrer. Un vecchio prete, che potremmo definire non fascista ma fascistissimo, contrariato dall’atteggiamento di don Lazzaro, ebbe l’ardire di prendere carta e penna e di scrivere al Prefetto di Forlì chiedendo il suo intervento per far tacere l’intraprendente sacerdote (17 settembre 1941). Dopo aver riscontrato che dal casellario giudiziario nei confronti di don Lazzaro non emergeva nulla, il Prefetto, avanzando le sue rimostranze, trasmise la lettera al vescovo Beniamino Socche. Pur non disponendo di ulteriori documenti, c’è sufficiente motivo per credere che il vescovo abbia invitato don Lazzaro ad una maggiore prudenza.

In cerca di salvezza

Intanto, nella previsione del peggio, c’era chi aveva preferito allontanarsi per tempo da Cesena e chi stava predisponendo dei rifugi ove nascondersi o ripararsi in caso di pericolo. Il fior fiore della gioventù maschile si trovava sotto le armi e per di più disseminato nei più svariati campi di battaglia dell’aspro conflitto mondiale. I giovani, che erano di leva dopo l’8 settembre, si diedero dapprima alla macchia per poi, piuttosto che rispondere alla chiamata del bando Graziani, andare in buona parte ad unirsi ed ad incrementare le formazioni partigiane in montagna. In occasione del primo bombardamento angloamericano su Cesena (13 maggio) quasi tutti uscirono di casa per recarsi nei rifugi (per lo più ricavati negli scantinati) o per sfollare in campagna e in collina.

L’Ospedale “M. Bufalini”

Oltre alle vittime e ai disagi sopportati dalla popolazione in quel tragico 13 maggio, si vedano, per una visione più collettiva della sofferenza, alcune vicende storiche relative all’Ospedale Civile “M. Bufalini”. Anche qui ci fu un fuggi fuggi generale: “Chi scappava in pigiama, chi si trascinava penosamente zoppicando e reggendosi a fatica, inciampando nei mobili rovesciati, chi chiamava lamentosamente aiuto, abbandonato sui letti sfatti! Ognuno faceva del suo meglio per assistere, riunire, portare letteralmente a braccia, sostenere a spalla chi non poteva muoversi per evitare pericolose cadute per le scale e impedire che [tutti] si servissero dell’unico montacarichi bloccato e semidistrutto”.

La sera stessa l’ospedale, ubicato all’epoca nei pressi della stazione ferroviaria, venne subito trasferito nei locali dell’Istituto Almerici. Il trasferimento fu deciso perché la vicinanza dell’ospedale alla linea ferroviaria era ritenuta troppo pericolosa. Ed in effetti una nuova scena apocalittica si verificò sulla stazione ferroviaria in occasione del bombardamento del 29 giugno allorché, “dopo le terrificanti esplosioni dei grossi proiettili sparati dal mare, che non avevano colpito il bersaglio, gli angloamericani ci provarono con gli aeroplani. Questa volta non fallirono. Ci fu un micidiale carosello di cacciabombardieri a mitragliare, a spezzonare!

Viravano proprio sopra l’ospedale prima di lanciarsi in picchiata sull’edificio della stazione, sui magazzini, sui depositi, sui binari! Colpirono un treno carico di munizioni e per più di due giorni sembrò di assistere a un nutritissimo spettacolo pirotecnico, mentre si incendiava un deposito di tonnellate di pani di zolfo che illuminò le notti con alte fiammate azzurre, gialle, verdi, rendendo irrespirabile con i fumi l’aria nel raggio di centinaia di metri”. Di mano in mano che il fronte si avvicinava, cresceva il fuoco delle artiglierie. Altissimi e quasi invisibili passavano gli aerei inglesi provenienti da Sud-Est, mentre da Nord- Ovest giungevano i colpi della rabbia tedesca. Pur intuendo quali potessero essere gli obbiettivi degli inglesi, la popolazione era assai preoccupata della possibilità di qualche errore di lancio o di premature raffiche di mitragliatrici o di cannoncini dei quali erano dotati quei terrificanti aerei da attacco al suolo. In poche parole opprimeva la gente il timore che qualche proiettile vagante centrasse la propria abitazione.

I giorni passavano a inseguire speranze, a covare illusioni, cercando di superare titubanze e incertezze, piangendo per le devastazioni e le rovine e prendendo momentaneamente respiro per quelle che potevano sembrare piccole vittorie sulle avversità di ogni sorta che in quei frangenti si aggiungevano alle difficoltà ancora più gravi e pesanti.

Di notte era difficile dormire per la presenza ossessionante di quell’aeroplano, da tutti oramai umoristicamente, ma non tanto, soprannominato “Pippo”, che puntualmente a notte fonda ronzava alto nel cielo buio, lanciando qua e là razzi illuminanti che scendevano lenti e candidi, ondeggiando leggiadramente. Per chi era sveglio l’attesa era frustrante e detestabile. Per chi dormiva c’era il brusco risveglio che metteva in apprensione, perché Pippo aveva la sinistra abitudine, dopo aver compiuto le ricognizioni, di farsi seguire da qualche cos’altro di ben più inquietante. Ad ogni bombardamento, l’ospedale si teneva pronto per accogliere l’inevitabile folla di feriti, collassati, laceri, sporchi di fango e di terriccio, tagliuzzati dalle schegge. A loro si aggiungeva sempre il massiccio afflusso di fuggiaschi distrutti e inebetiti, di gente atterrita, confusa e disorientata, attonita e sotto choc, che si era pure costretti a respingere. All’interno dell’ospedale “i ricoverati erano tutti svegli: i lineamenti rivelavano il panico e l’angoscia: i più pregavano ad alta voce formando una specie di coro dissonante e stonato. Alcuni, in preda a sconforto, pronunciavano parole senza senso: c’era chi giaceva rattrappito e immobile, con gli occhi sbarrati, immerso in un silenzio inquietante, mentre il personale e le suore si aggiravano nelle corsie, nei cameroni, nei corridoi, dentro e fuori dai tanti strani ennicoli, con i loro piccoli lumi oscillanti ad ogni passo, cercando parole di speranza, ingegnandosi a calmare la evidente paura e a fugare la generale disperazione. Sorridevano a chi pregava: consolavano chi piangeva: rincuoravano gli spaventati, rassettando i letti e i giacigli, controllando i gessi e le medicazioni, riordinando e rifornendo con cura e precisione, i locali e le attrezzature del pronto soccorso”. Per analogia si può pensare che un simile stato d’animo si vivesse anche nei rifugi e nei luoghi in cui si registrava la concentrazione di diverse persone.

Il vescovo Socche

Fin dal suo ingresso in diocesi il vescovo Beniamino Socche aveva cercato di avere un rapporto di corretto vicinato con le autorità fasciste e, fin dove era possibile, di collaborazione. Non pregiudizialmente avverso allo stato fascista, sentiva però abbastanza estranea l’ideologia del regime. Dopo l’occupazione tedesca, fatta seguito all’armistizio dell’8 settembre, il suo spirito di coraggiosa fedeltà al Vangelo e ai doveri di pastore del popolo a lui affidato, emerse nel contatto quotidiano con una realtà di crescente sopraffazione e oppressione dei più elementari diritti umani e di indicibili sofferenze delle popolazioni: rastrellamenti, bombardamenti, eccidi, fucilazioni. Cominciò allora a salire le scale della Casa del Fascio e del comando tedesco per protestare, supplicare, chiedere, imporre fin dove gli fu possibile, in difesa di tutti i perseguitati e i colpiti, mentre ordinava ai suoi preti di soccorrere, assistere, mettere in salvo i ricercati, gli ebrei, i minacciati da una barbarie che non si stancava di denunciare.

Socche aprì l’episcopio a sfollati e a persone rimaste senza casa. Distribuì viveri, abiti e biancheria. A questo proposito si narra che, quando la sorella che lo accudiva se ne accorse, si vide suo malgrado costretta a mendicare un paio di lenzuoli dalle suore di clausura per potergli cambiare il letto. Il vescovo visitava nei rifugi la gente terrorizzata, pregava con lei, faceva portare aiuti e soccorsi, interveniva per far sminare il duomo, per evitare che i tedeschi in ritirata e i fascisti disperati facessero saltare in aria edifici pubblici, stabilimenti e servizi essenziali. Nel timore che potesse succedergli qualche cosa, i canonici non volevano che continuasse a celebrare di sabato, come da sua abitudine, la messa all’altare della Madonna del Popolo. E proprio la mattina in cui la supplica dei canonici fu più vibrata: “Non vogliamo la morte del vescovo”, una granata vagante, entrata in cattedrale, si fermò a pochi centimetri da lui. Come se niente fosse, il vescovo Socche non la degnò di uno sguardo e imperterrito continuò la celebrazione del santo sacrifico. Nell’estate del 1944, nei mesi più lunghi e interminabili, nei giorni dell’ira, mentre le autorità costituite si erano date alla fuga, ad eccezione del sub-commissario Renato Mordenti, il vescovo Socche diventava, suo malgrado, in una necessaria supplenza, l’unica autorità tanto da essere definito defensor civitatis. (Per questi meriti gli sarà attribuita il 20 ottobre 1954, nel decennale della liberazione di Cesena, la cittadinanza onoraria).

Il coraggio della fede

Parimenti, con un coraggio indomito tipico degli uomini di grande fede, anche don Baronio girava di rifugio in rifugio a portare conforto e a chi gli faceva notare il pericolo dei bombardamenti e delle granate, con grande tranquillità rispondeva: “Loro vanno per la loro strada, io per la mia”. Con ardimento e coraggio, il prete ciclista, alias don Lino Mancini, grazie al lasciapassare avuto dalla Kommandantur tedesca per l’esercizio del culto, teneva e intesseva segreti contatti fra le formazioni partigiane e i gruppi di antifascisti cittadini. Al Monte, dove fra due muri era stata occultata la metà dei codici della Biblioteca Malatestiana nonché tutto il materiale dell’archivio storico comunale e dove erano sfollate alcune centinaia di persone, don Placido Zucàl si oppose energicamente ad un giovane partigiano che voleva fare strage dei soldati tedeschi presenti in abbazia. La sua ferma presa di posizione sventò il pericolo di una pesantissima ritorsione tedesca che sarebbe peraltro ricaduta su una popolazione del tutto inerme.

Don Adamo Carloni, per aver, d’intesa col fratello, tenuto nascosti tre ebrei in casa, venne prelevato e massacrato di botte alla Kommandantur. Venne salvato da una brutta fine, o da un invio in campo di concentramento, per l’energico intervento del vescovo Socche. Questi sono solo alcuni degli aspetti di quel grande mosaico qual è stata l’azione della Chiesa nella difesa della gente e soprattutto della gente comune. Nelle cripte delle chiese e nei campanili la gente ha trovato rifugio e protezione come ai tempi delle invasioni barbariche quando l’uomo selvaggio, dopo averla cacciata di casa, tentennò non poco a violare il luogo sacro. In quei terribili giorni la gente, sapeva di poter contare sui suoi preti per la difesa della propria vita e per la difesa dei giovani che rifiutavano la Repubblica Sociale Italiana.

Per una Resistenza “più ampia”

In definitiva alla Chiesa cesenate e al suo vescovo Beniamino Socche va riconosciuto il merito di aver svolto una grande azione di protezione e di vera e propria resistenza davanti alla violenza e al violento. Forse qualcuno si chiederà perché faccio uso della parola Resistenza. La cito e mi sento di parlarne a proposito perché in questi ultimi anni il concetto di Resistenza ha visto crescere sempre più la sua visione di insieme. La recente storiografia infatti allarga il concetto di Resistenza oltre il fatto armato. La lotta contro il Nazifascismo non è stata solo la lotta compiuta dai fatti d’arme, ma da un’intera popolazione, che, sotto i soprusi, ha saputo ritrovare compattezza, solidarietà e da quelle persone che in simili e tremende condizioni hanno saputo trovare la forza e la volontà politica di fare funzionare i servizi pubblici; di apprestare i rifugi; di soccorrere e assistere le vittime; di salvare e trasportare macchinari e impianti; di ripristinare la viabilità; di distribuire viveri e medicinali; di assistere e difendere le persone; e – perché no – di raccogliere i resti pietosi dei dilaniati dalle bombe e di inumarne le salme.

Ma questo più ampio concetto di Resistenza non finisce qui, dal momento che il lavoro con la liberazione di Cesena non terminò, cominciò anzi una fase altrettanto impegnativa per la riorganizzazione dei servizi, per l’assistenza alla popolazione sinistrata, per la ricostruzione delle case e della fabbriche e per impedire la violenza e le vendette. A conferma di ciò valgano la ripetuta affermazione di Leo Valiani: “Una delle preoccupazioni più grandi del C.L.N.A.I. era la costituzione dei tribunali del popolo, formati da giudici improvvisati che, sprovvisti delle necessarie competenze giuridiche, troppo volte si lasciavano andare a spirito di vendetta”. Su tutto, nonostante il terribile clima della guerra fredda, prevalse, ringraziando il cielo, la volontà di vivere e di far crescere le nuove generazioni in un rinnovato clima di fratellanza, di libertà e di pace.

Pubblicato giovedì 23 Ottobre 2014 alle 00:00

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