I profughi ospitati in centro ad Alfero: “Le nostre storie”

di Francesco Zanotti

All’arrivo ad Alfero, dopo una sessantina di chilometri da Cesena, non si nota nessuna invasione. Lo abbiamo verificato venerdì della scorsa settimana, quando siamo saliti (con me c’era mio figlio Emanuele, più abile del sottoscritto con le lingue straniere) fino al tranquillo paese collocato in una splendida conca, a 670 metri sul livello del mare. Non si vedono uomini che incutono timore. Il clima è il solito: una località tranquilla che in estate si gode il fresco grazie ai vicini boschi di un lussureggiante Appennino.

Ci aggiriamo incuriositi fra le vie che velocemente ci conducono dal centro fino alla parrocchia. Un paio di alberghi, abitazioni ben curate, la banca, l’ufficio postale, la farmacia. Ci sono anche le indicazioni dei sentieri di montagna con i tempi per raggiungere a piedi varie destinazioni: da qui occorrono tre ore e un quarto per l’eremo di Sant’Alberico, una delle mete più ambite della zona.

Dal 10 aprile scorso, all’hotel Appennino nord sono ospitati 26 giovani africani. All’inizio ne arrivarono 43. Nel frattempo 17 di loro sono stati smistati in altri centri di accoglienza. Sono quasi tutti francofoni. Per la maggior parte provengono dai Paesi sub sahariani, come Mali, Benin, Camerun e Costa d’Avorio. Ce ne sono anche del piccolo stato del Gambia,una lingua di terra tutta attorniata dal Senegal. Ne incontriamo alcuni (la maggior parte di loro è a dormire, musulmani che rispettano il Ramadan) anche se non è subito semplice entrare in sintonia. Basta poco, però, per fare intendere che non abbiamo alcuna intenzione bellicosa.

Il primo a raccontare di sé è Mahadi, 24 anni, originario del Mali. Parla un francese abbastanza stretto. E’ timido. Non ha conosciuto altra gente se non quelli che operano nell’albergo dove alloggia e i frequentatori dell’attiguo bar. Ha pochi anni di studi alle spalle. Fa affidamento su un fratello che vive in Italia. La sua speranza è tutta legata alla permanenza nel nostro Paese. “O resto qui o torno a casa mia. Però, ho pagato troppo per arrivare fin qua: non è possibile pensare di dover tornare indietro”, dice abbastanza sconsolato.

Kalilou Diakitè ha 32 anni. Porta lo stesso cognome di un calciatore famoso. E’ sposato e in Mali ha lasciato la moglie e un figlio. Per arrivare fino a Lampedusa ha finito tutti i soldi. E’ l’unico, tra i 26 presenti ad Alfero, a non possedere un cellulare. Non se ne cura. I suoi pensieri sono rivolti alla permanenza in Italia e alla sua famiglia rimasta in Africa.

Sono tutti giovani o giovanissimi, dai visi belli e sorridenti, quelli che abbiamo incontrato. A motivo della loro presenza, il paese che li ospita si è diviso. Dopo tre mesi sono ancora molti quelli diffidenti.

Eppure Cheick Diallo, classe 1992, è un ragazzo che ha finito il liceo, a casa sua, in Mali. Poi uno sciopero illimitato lo ha portato in Burkina, in Niger e in Libia. “Ho lavorato scaricando camion tutto il giorno per pagarmi il viaggio di uscita dalla Libia. Voi, in Italia, non potete comprendere cosa significhi la crisi. Io non sono voluto venire in Italia. Sono stato “obbligato” a venire in Italia e adesso qui vorrei continuare a studiare”. Parla un francese molto comprensibile. Con lui ci si intende a meraviglia. Si dialoga con piacere.

Un dato appare abbastanza chiaro: questa è gente che vuole parlare, raccontare, fare comprendere come è un’altra parte di mondo, quella che noi a volte ci ostiniamo a non voler vedere. Eppure, basterebbe anche solo ascoltare.

Pubblicato giovedì 17 Luglio 2014 alle 00:02

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